Le basi neurali dello storytelling: l’interprete

Tra le pieghe corticali e sottocorticali dell’emisfero sinistro si nasconde una struttura misteriosa che col collante dei nessi di causa-effetto tiene assieme i frammenti di informazione che attraversano continuamente il nostro cervello: si tratta dell’interprete, una rete neurale ipotizzata dai neuroscienziati Michael Gazzaniga e Matt Roser.

Secondo Gazzaniga e Roser, la funzione di questo network sarebbe quella di trasformare in una narrazione dotata di senso il continuo fluire del fenomenico e, scendendo a livello più pratico, forgiare le credenze necessarie per svolgere comportamenti finalizzati a obiettivi.

L’associazione con lo storytelling e in più in generale la particolare abilità del cervello umano di creare storie viene automatica. Sono proprio i due autori a effettuare questi collegamenti, ponendo l’interprete alla base del linguaggio.

A livello evolutivo, lo sviluppo di una struttura di questo tipo sarebbe legato alla necessità di liberarsi dai condizionamenti dei comportamenti riflessi di tipo stimolo-risposta guidati da eventi esterni.

La capacità tutta umana di raccontare storie e fare storytelling servirebbe a uscire dal vicolo cieco dei comportamenti istintivi e sarebbe la premessa per la conoscenza e il pensiero scientifico, due fattori chiave che ci hanno permesso di fare il salto da animali a esseri senzienti.

Storytelling neurale

Come agisce concretamente l’interprete? All’atto pratico, svolge il compito di creare quello che potremmo definire lo storytelling della nostra vita:

  • Giustifica il nostro comportamento
  • Interpreta gli umori e le emozioni, creando delle giustificazioni e spiegazioni
  • Distorce i ricordi, rendendoli a volte più belli

Nel pensiero indiano, la funzione dell’interprete è rappresentata da Maya, l’ingannatrice, la nostra mente discorsiva che crea continuamente pensieri e narrazioni, ma così facendo distorce la realtà.

È per questo motivo il devoto e il praticante di yoga devono andare oltre lo storytelling interno per accedere a un livello di consapevolezza superiore.

Analoghe riflessioni vengono svolte da alcune scuole buddiste, che giungono a dipingere la mente come un abile pittore che dipinge la realtà (Sutra della Ghirlanda di fiori).

L’interprete non è oggettivo

Per sua natura, l’interprete lavora bene nelle relazioni semantiche, ma attenzione, l’interprete improvvisa, crea la prima spiegazione che abbia un senso e poi agisce senza verificare i fatti e le correlazioni. E come tutti i grandi narratori, non è scientifico.

Gazzaniga parla a questo proposito di formulazione credenze e pregiudizi. Del resto, le più grandi storie sono spesso anche pura invenzione di fatti e persone. E se l’interprete fosse effettivamente alla base dello storytelling, ciò non dovrebbe stupirci più di tanto.

Per nostra fortuna, non mancano i correttivi neurali dell’interprete. Alcune aree della corteccia sarebbero deputate a controbilanciare la tendenza all’ottimismo su di sé del nostro cervello, oltre a una certa tendenza all’autoreferenzialità egotica che tutti noi abbiamo.

Nel manuale a cui ha partecipato come coautore (Gazzaniga, Ivry, Mangun, Neuroscienze Cognitive, Zanichelli, Bologna, 2021), Gazzaniga riprende e sviluppa queste considerazioni, illustrando il ruolo della corteccia frontale e prefrontale nel controllo delle pulsioni e delle emozioni e nella formulazione delle nostre decisioni.

Storytelling, scrittura e terapia

L’intuizione dell’interprete cerebrale rilancia l’importanza del linguaggio, di cui è il motore, e che ci differenzia dagli animali nelle nostre scelte e comportamenti.

D’altro canto, basta osservare i gravi deficit non solo cognitivi, ma anche motori dei bambini abbandonati nei boschi e allevati dagli animali per comprendere quanto l’apprendimento della lingua madre sia fondamentale non solo per raccontarci storie, ma pressoché per tutte le funzioni cerebrali, compreso il semplice stare in piedi. Scrive Adele Pascale, nella Rivista di Psichiatria (2011):

Il linguaggio – astratta abilità necessaria a fornire l’ordinamento di dati di esperienza sempre più numerosi, e probabilmente evolutasi a partire da competenze motorie – comporta di pari passo la possibilità, per un sistema conoscitivo, di avere coscienza di sé, e per far questo di doversi contemporaneamente “distaccare” da sé ovvero di dovere esperire una profonda condizione di solitudine. Ecco che il progressivo sviluppo delle abilità cognitive si lega alla possibilità di “ingannare” e di “autoingannarsi” di pari passo all’acquisizione di sempre più avanzati e ulteriori livelli di consapevolezza

La scrittura – la forma ultima e più avanzata del linguaggio – consente dunque a chi la pratica quel processo di distacco, rielaborazione, presa di coscienza e ristrutturazione del proprio vissuto emozionale che ne ha permesso l’adozione come forma di terapia.

Dopotutto, ci evolviamo per stare meglio. La scrittura ci consente di sciogliere e ordinare la matassa oscura dei sentimenti, riportando la luce dove c’è confusione, angoscia e paura. E se l’interprete verrà scoperto, segnerà una pietra miliare non solo nella comprensione del funzionamento della mente, ma anche nella costruzione del nostro senso del sé.

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Per approfondire:

Michael S. Gazzaniga, L’interprete. Come il cervello decodifica il mondo. Di Renzo Editore, 2007

Come il cervello immagazzina e organizza il lessico: le mappe semantiche

Autore: Marco La Rosa

Sono un web content writer, web designer e esperto di SEO e UX design. Ho scritto il libro Neurocopywriting, edito da Hoepli, dedicato all'applicazione delle neuroscienze alla comunicazione.

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