La lingua che parliamo influenza la mente e il modo di pensare?

La lingua può influenzare la mente, il pensiero, e, più in generale, la visione del mondo dei locutori? Oppure si tratta di un semplice pregiudizio?

I lettori che hanno fatto il classico ricorderanno l’incitazione a sgobbare sul latino perché allenerebbe il cervello. La stessa esortazione accompagna chi si avvicina all’inglese, al tedesco o allo studio di qualsiasi altra lingua, moderna o antica che sia.

Indubbiamente, per rappresentare un concetto e ragionare su di esso dobbiamo trovare un nome che lo descriva. Basterebbe questo per affermare l’importanza del legame tra linguaggio e pensiero.

Marie Cardinal ha espresso meravigliosamente questo concetto con il suo libro: Le parole per dirlo, in cui racconta il cammino difficile di chi deve affrontare – e nominare – paure e nevrosi.

Test neuroscientifici sul rapporto lingua mente

Le neuroscienze hanno affrontato recentemente anche questo problema, offrendo prove sempre più numerose e interessanti di come la lingua, in particolar modo la sua struttura grammaticale e sintattica, influenzano i locutori.

Guy Deutscher, linguista, professore presso l’università di Manchester e autore del libro: La lingua colora il mondo. Come le parole deformano la realtà (Torino, 2016), ne è ben consapevole. Nel suo libro porta diversi esempi di come i termini usati in una lingua possano influenzare in modo anche considerevole la nostra percezione del reale.

Nel manuale di Bears, Connor e Paradiso: Neuroscienze, esplorando il cervello, viene dedicato all’argomento un intero box di approfondimento (lo trovate a pagina 716). Si scopre che le lingue come l’italiano che dividono le parole in maschile e femminile influenzano il modo con cui pensiamo a un oggetto proprio attraverso il suo genere.

In un esperimento, dei soggetti di lingua spagnola e francese tendevano ad associare voci maschili o femminili ad oggetti che erano di genere maschile o femminile nella loro lingua.

I numeri fanno la differenza

Ma si va molto più in là dei meri problemi di genere. La tribù amazzonica dei Piraha, ad esempio, non conosce i numeri e non sa quindi contare. Tutto si riduce a dire pochi o tanti, e forse alla fine solo questo conta.

I cinesi sanno contare molto bene, ma non hanno il futuro. Il risultato? Secondo il neuroeconomista M. Keith Chen, questo potrebbe portare a una tendenza al risparmio superiore anche fino al 30% rispetto a chi parla lingue più programmatiche, ma forse anche più imprudenti nella falsa sicurezza che può dare la declinazione dell’azione al futuro.

Resta sempre la matematica quella che fa la differenza. Secondo il neuropsicologo Julin Abutalebi i conti e i numeri chiamano in causa circuiti diversi da quelli del linguaggio e richiede maggior sforzo e quindi maggior controllo.

Se volete fare pubblicità subliminale, non usate quindi delle cifre. E forse è per questo che i venditori trattano l’argomento prezzo sempre alla fine, quando ormai l’interlocutore è rapito dall’emozione del prodotto e le sue difese sono cadute.

La lingua influenza la morale

Altri studi hanno dimostrato che quando pensiamo in una seconda lingua siamo moralmente più disinibiti. Questo potrebbe spiegare la credenza che ho trovato in diversi paesi che le donne o gli uomini stranieri sono più liberi e sessualmente disponibili.

Tuttavia, ciò non porterà necessariamente a storie d’amore: un altro studio ha rivelato che siamo emozionalmente più freddi quando lavoriamo con una lingua straniera: insomma, è difficile dimenticare il calore della lingua madre.

Lingua e modo di pensare: i problemi aperti

Se grammatica, morfemi e parole influenzano la mente, si avrebbe non soltanto un fondamento per confutare le teorie di Chomsky sull’esistenza di una grammatica universale, ma anche una buona ragione per giustificare le norme e regole sul politically correct che un po’ dovunque si vorrebbero introdurre.

Infatti, evitare certe espressioni che potrebbero risultare lesive, offensive o non inclusive potrebbe aiutare la graduale affermazione di una mentalità più aperta e tollerante.

Tuttavia, la scoperta del ruolo giocato dalla lingua sul nostro cervello non porterà necessariamente a un mondo migliore. Il passo a dichiarare alcune lingue – e quindi culture – superiori ad altre è breve. La stessa storia delle lingue neolatine ci ricorda che chi perde e viene assoggettato finisce sempre per dover studiare la lingua del vincitore.

La parola è un’arma, e come tutte le armi, può far bene o fare male. “Quando un popolo non osa più difendere la propria lingua, è pronto per la schiavitù.” (Rémy De Gourmont). E non è un caso che tanto guerre nascono proprio da diatribe sul diritto a usarne una.

Autore: Marco La Rosa

Sono un web content writer, web designer e esperto di SEO e UX design. Ho scritto il libro Neurocopywriting, edito da Hoepli, dedicato all'applicazione delle neuroscienze alla comunicazione.

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