Il ruolo della comunicazione nell’abuso psicologico

Fenomeno purtroppo sempre più diffuso, l’abuso psicologico è quella pratica con cui qualcuno cerca di minare la stabilità, la felicità e l’autostima di qualcuno con una serie di menzogne, accuse, denigrazioni e altri comportamenti verbali e no.

Può essere praticato nei rapporti di coppia, nei legami familiari, a scuola, nei posti di lavoro. Il risultato, nel medio e lungo termine, è devastante: la vittima esposta a questi comportamenti diventa insicura, instabile, fino ad arrivare nei casi più gravi alla depressione e al suicidio.

L’abuso verbale

La forma più comune di abuso psicologico è ciò che viene chiamato abuso verbale. Le parole possono ferire anche a livello fisico, non solo psichico: Ricerche neuroscientifiche hanno dimostrato che l’abuso verbale lascia delle vere e proprie “cicatrici” nel nostro cervello. Un insulto, in particolare, ha lo stesso effetto di uno schiaffo.

Purtroppo, l’abuso psicologico colpisce particolarmente il gentil sesso: secondo i dati ISTAT, in Italia ben il 40% delle donne viene sottoposto a qualche forma di svalutazione, sottomissione e violenza psicologica, al punto che è stata proposta una legge per penalizzare l’abuso emotivo.

L’altro grande segmento di vittime sono i minori: secondo i dati diffusi dalla rete Child Care, ben 3 bambini su 4 hanno subito una qualche forma di abuso psicologico nel mondo, con conseguenze sulla salute psichica che gravano per tutta la vita e i relativi costi a carico non solo della famiglia, ma anche della società.

Parola chiave: disprezzo e umiliazione

La forma più comune di abuso psicologico si manifesta attraverso il disprezzo e l’umiliazione. Ricordiamo che queste due emozioni lasciano tracce profonde in chiunque, essendo, secondo alcuni studi, tra le più forti e intense che un essere umano possa provare.

In questo tipo di aggressione un grande ruolo assume la comunicazione verbale, anche se non sempre è facile e immediato riconoscerlo.Il nucleo della strategia di chi attua forme di abuso psicologico è infatti costruire nella vittima una narrazione di sconfitta: non ce la posso fare, sono debole, inadeguato, è colpa mia, e via di seguito.

Dato che una comunicazione apertamente aggressiva presenta maggiori rischi, il carnefice preferisce spesso celare i suoi attacchi dietro piccole frasi ad effetto ripetute nel tempo che però nei mesi e negli anni avranno effetti pesanti sull’autostima e la fiducia della vittima.

In altri casi, al disprezzo e all’umiliazione si aggiunge la violenza emotiva, veicolando nel messaggio emozioni come la collera e la rabbia. Alla perdita di fiducia, si aggiunge in questo caso un altro danno: la vittima si chiude inevitabilmente in atteggiamenti di difesa.

Il problema è che se l’attacco è sistematico e continuo, l’atteggiamento di difesa diventa un comportamento costante nella vittima, che apparirà nervosa, aggressiva e poco piacevole con tutti. Pensate a come vi sentite dopo uno scontro verbale, e di quanto tempo avete bisogno per recuperare simpatia e buonumore.

Il risultato finale è un circolo vizioso: più la vittima viene aggredita, più sviluppa inconsapevolmente atteggiamenti che l’allontano dagli altri e la privano di possibili aiuti.

La comunicazione manipolativa e l’abuso verbale possono essere riconosciuti; la consapevolezza si rivela molto utile per individuare ciò che a tutti gli effetti è una forma di maltrattamento psicologico e quindi preparare delle strategie di difesa.

Vediamone quindi le forme più diffuse:

Sarcasmo e indifferenza di fronte ai tuoi successi

Si riconosce soprattutto dal linguaggio non verbale (tono di voce, espressione facciale). Pensate alle diverse intonazioni che può assumere un: “Hai preso dieci in matematica”.  Dirlo con un sorriso e una bella esclamazione è molto diverso che con tono di voce neutro o leggermente ostile, e l’assenza di qualsiasi particolare espressione facciale.

Nel primo caso suggeriamo piacere, gioia, congratulazioni e apprezzamento; nel secondo caso la nostra indifferenza può essere spiazzante e molto più efficacemente distruttiva di una espressione di chiara ostilità (ad esempio: “Odio il tuo dieci in matematica”), proprio perché poco decifrabile e più simile a una sottile, indefinibile minaccia, oppure a un muto rimprovero che sembra alludere ad uno spiacevole: “Sì, ok, ma non basta”.

Alcuni studi hanno dimostrato che l’indifferenza ha il subdolo potere di scoraggiare le persone dal perseguire i loro obiettivi, in quanto fa emergere i loro dubbi più reconditi.

Il mobbing delle richieste sempre più esigenti

L’ultimo esempio del paragrafo precedente richiama una strategia che mi descrisse un manager alcuni anni fa e che viene a volte utilizzate dalle aziende che desiderano tagliare i costi del personale.

In sostanza, si tratta di alzare sempre più l’asticella, veicolando un continuo: “Appena sufficiente, ma non soddisfacente”, per minare alla radice la sicurezza dei dipendenti e possibili richieste di aumenti salariali.

L’idea è tenere la persona in continuo scacco, costringerla a doversi impegnare (e quindi a rendere) sempre di più per strappare anche l’accenno di un sorriso o di un gesto di approvazione.

Questa strategia funziona se ogni tanto viene concessa una piccola gratificazione, in modo da alimentare anche la speranza che uno ce la potrebbe anche fare. Il comportamento di chi cerca di attuare questa forma di manipolazione sarà freddo, distaccato, superiore, in modo da ribadire la superiorità di ruolo.

La mimica e il linguaggio non verbale del carnefice veicoleranno una forma di disgusto e disprezzo, a sottolineare un rapporto di sottomissione dell’inferiore verso il superiore. Ovviamente, per attuare questa strategia bisogna effettivamente rivestire un ruolo di potere sull’altro: capoufficio, genitore, superiore.

Ipercriticismo

La critica può essere costruttiva, e ciò avviene quando non veicola minacce o aggressività, oppure distruttiva, quando mira a colpire l’autostima delle persone.

La critica costruttiva colpisce l’azione, non la persona: “Se fai così ti fai male; guarda, ti faccio vedere”. La critica distruttiva, invece, colpisce sempre la persona, che viene accusata di essere stupida o inadeguata: “Sei un buono a nulla, dai lo faccio io se no ti farai male”.

Una forma alternativa di ipercriticismo è l’opposizione, ossia essere sistematicamente contro tutto quello che l’altra persona dice, afferma o propone. In sostanza, l’altro diventa un nemico, a cui si contesta il fatto stesso di esistere. Le frasi tipiche possono essere: “Sei tu che lo dici”, “Sono solo tue opinioni”, “Falso, il mio consulente dice invece che…”, “Perché invece non facciamo così?” e via di seguito.

Le critiche distruttive protratte nel tempo mirano a radicare nella persona target l’idea di essere incapace o inetta, e di aver bisogno dell’aiuto, protezione o supervisione di chi effettua le critiche. Altri effetti osservati sono l’aumento del’ansia e della rabbia.

Criticare o correggere significa infatti arrogarsi automaticamente superiorità e assumere un ruolo di potere su chi subisce la critica, e nello stesso tempo distruggere nella vittima qualsiasi velleità di indipendenza e autonomia.

Minimizzazione

Se non si può criticare o correggere perché il risultato è così buono che non c’è critica che tenga, si può sempre ricorrere alla minimizzazione: “Ok, va bene, ma puoi migliorare”; “Va beh, però non montarti la testa”; “Niente di speciale; gli altri ci sono arrivati già da anni” e via di seguito.

Una forma insidiosa di minimizzazione è l’appello alla modestia: “Ok, ti è andata bene, ma la prossima volta?” “Stai diventando arrogante, non dovresti vantartene”; “Le persone veramente brave sono modeste e umili”, e così via di seguito.

La modestia è una trappola perché è un concetto indefinito, soprattutto sul lavoro; i professionisti non sono mai modesti, ma competenti e prudenti. La prudenza differisce dalla modestia, perché non implica una diminuzione o una umiliazione del sé.

Inoltre, l’appello alla modestia implica una sotterranea attribuzione di colpa, perché chi non è modesto è arrogante, e l’arroganza non è una qualità positiva. Un atteggiamento corretto potrebbe essere invece un: “Bravo, ce l’hai fatta: sii però prudente, per questo o quel motivo”.

Paragoni e superlativi

Una forma particolarmente subdola di criticismo è il paragone: basta semplicemente paragonare costantemente la vittima con qualcuno più bravo di lui, in modo da dimostrare la sua inadeguatezza e farlo sentire incapace, inadeguato, pigro, colpevole di non riuscire a raggiungere i risultati, o semplicemente frustrarlo nei suoi tentativi al punto tale da desistere definitivamente in quella attività.

Il paragone può essere anche con persone ritenute negative o distruttive, per sottolineare i difetti e le colpe della vittima. Pensate al classico: “Sei come/mi ricordi mia madre”, oppure: “Hai la stessa arroganza menefreghista del mio ex”.

Ricerche neuroscentifiche hanno dimostrato l’importanza centrale del paragone e del confronto di noi con gli altri per la costruzione del nostro senso di sè e delle nostre capacità. Il paragone continuo con standard irragiungibili può quindi farci sentire cronicamente incapaci, inadeguati e insicuri.

Nei casi più gravi, l’aggressore passerà all’attacco diretto andando a una forma di critica che può rasentare l’insulto: “Balli così male che non riesco a seguirti”; “Suoni proprio male, poveri vicini”, e così via di seguito.

Soprannomi dispregiativi e diminutivi, ridicolizzare

Lo impariamo già alle elementari: non c’è niente di meglio per denigrare qualcuno che affibbiargli un soprannome dispregiativo. Sarà pensiero magico, ma è anche vero che nel nome si nasconde il destino di una persona.

Il soprannome dispregiativo è una delle forme che può assumere la triste pratica di ridicolizzare la vittima davanti a tutti. Rendere qualcuno lo zimbello del gruppo è un vero e proprio modo di ucciderlo socialmente e fargli perdere possibili e preziosi appoggi.

Se questi attacchi vengono portati tramite i social, si hanno le varie ipotesi del bullismo di rete, comportamenti assai gravi che hanno spesso portato le vittime al suicidio o alla depressione.

La svalutazione di una persona, purtroppo, può essere attuata in mille modi. Non c’è limite alla fantasia e alle possibilità che offre il linguaggio. Una costante è l’utilizzo di aggettivi e parole con connotazioni negative che vengono riferite all’obbiettivo, come il classico: “Sei pazzo”. Vediamo qualche esempio comune:

“Sei bravo a fare questo. Potresti fare un qualsiasi lavoro X (ma di qualifica inferiore)”. L’apparente complimento e l’innocente consiglio nascondono in realtà l’attribuzione dell’interlocutore a lavori e quindi capacità molto al di sotto del suo reale valore.

“Ora che l’hai suggerito, fallo”. Suggerire qualcosa non vuol dire certamente farlo, in uno scambio amichevole e paritario spesso si suggeriscono idee solamente per avere uno scambio dialettico, non per attuare qualcosa. La frase nasconde l’insidia di una sfida, è come dire: “Va bene, gradasso, vediamo se ne sei capace”.

“Ti aiuto io”, “Adesso te lo spiego” (detto con aria di leggere commiserazione o sufficienza). Sottintende un: “Non ce la puoi fare, non sei capace”, se non di peggio (“sei imbranato, insufficiente”).

“Carino. Però si potrebbe migliorare. Ad esempio… “(implica un: comunque son più bravo di te. Vedi spiegazione voce precedente).

Rimprovero e negazione dei bisogni dell’altro

“Dai non è grave”, “Sei tu che esageri”, “Scusa ma non mi interessa”, “Fai come tutti gli altri (detto con distacco e noia)”, oppure semplicemente cambiare argomento: sono tutti inequivocabili messaggi di indifferenza verso i bisogni espressi dall’altro.

L’indifferenza può diventare però negazione del bisogno, spesso espressa in forma subdola: “Ne parliamo dopo”, “Adesso non c’è tempo”, “Prima facciamo questo che è più importante”, e così via.

Questo tipo di comunicazione valorizza aggettivi ed espressioni che riducono o negano l’importanza delle nostre richieste, in genere contrapponendoli a qualcosa di più urgente e importante, oppure sfruttano la mancanza di tempo e il senso di urgenza per la necessità di gestire qualcosa d’altro.

Il risultato finale è costringere l’altra persona a rinunciare a esprimere o rivendicare le proprie necessità in nome di qualcosa d’altro di più importante, sia esso i figli, la famiglia, l’azienda, lo stato, la nazione, la causa, il partito, il lavoro e quant’altro.

In questo tipo di relazione sembra di trovarsi di fronte a un vero e proprio processo di alienazione, in cui la nostra vita viene risucchiata dall’altro e immolata al suo vantaggio, in nome di supposti principi e valori superiori.

Mentire in modo strategico

La menzogna è una grande arma nelle mani di chiunque sappia utilizzarla bene. Una forma classica è quella di inventarsi false accuse e incolpare l’altro di cose mai accadute di cui si deve ovviamente assumere la responsabilità.

Questo tipo di attacco può essere attuata in maniera perfidamente efficace accusando l’altro di fatti veri o verosimilmente veri e di cui non è realmente responsabile: “Mi è andata male per colpa tua che mi hai portato sfortuna”; “Non passo l’esame perché tu mi distrai in continuazione”; “Non riesco a lavorare perché mi mandi troppi messaggi e mi tieni troppo al telefono”.

Un altro modo di mentire è attribuire all’altro difetti, cattive intenzioni e mancanze di qualità anche quando non è vero per mandarlo in crisi e spingerlo a ritirarsi o non fare certe attività: “Parli male in pubblico, hai una voce stridula”; “Non parlare con le persone dell’altro sesso, il tuo modo di fare infastidisce”, e così via.

L’effetto è non solo incolpare e mettere l’atro in situazione di soggezione e vergogna (“Cosa gli ho fatto di male”?), ma, come sempre, anche farlo dubitare profondamente del suo modo di essere, delle sue buone intenzioni e delle sue capacità di comunicare, minandone la fiducia e il senso di sé. Ricordiamo che in psicologia la menzogna è una forma di controllo e potere.

Altre forme di menzogne sono negare i fatti, sostenendo che non è successo nulla, che nulla è mai accaduto, e che comunque non è colpa del carnefice (negazione della realtà ma della vittima). Un esempio tipico è il fatidico: “Sei pazzo? Non l’ho mai detto”, oppure: “Tu mi hai costretto”. Questa strategia viene utilizzata per nascondere le proprie responsabilità.

Un esempio di attacco più grave è incolpare l’altra persona di distorcere i fatti, la realtà; “Sei pazzo”; “Distorci i fatti”; “Manipoli i fatti, la tua versione è sempre falsa”, “Non volevo dire quello, sei tu che lo pensi”, in modo da indurla a dubitare dei suoi ricordi e sensazioni.

Un’altra forma di menzogna è quella di minimizzare quanto accaduto o addirittura negarlo: “Ma cosa dici, non urlavo”, “Sei paranoico, non ti odia nessuno”, “Non è così grave”, e via di seguito.

Inversione vittima carnefice e gaslighting

Una forma molto utilizzata di abuso psicologico è quello di attaccare e poi negare l’attacco, sostenendo che invece è stata la vittima ad aggredire per prima. Si parla in questo caso di inversione del ruolo tra vittima e carnefice. Questa forma di comunicazione è spesso utilizzata non solo nei rapporti di coppia, ma anche in politica.

Una forma blanda di questa strategia è insultare e denigrare la vittima per poi accusarla di suscettibilità e permalosità quando questa si difende. La ragione di questa strategia è ovvia: la vittima viene messa con le spalle al muro: le può solo prendere, si trova in uno strano nodo logico ove qualsiasi difesa è sbagliata.

Nei casi più gravi, si può arrivare a comportamenti molto gravi denominati manipolazione maligna o gaslighting, in cui la vittima viene costantemente accusata di essere narcisista, ipercritica, troppo esigente, oppure i suoi ricordi vengono negati e messi in discussione.

Esempi di queste forme di abuso particolarmente grave si hanno quando la vittima viene colpevolizzata per essere stata aggredita, attribuendo a suoi presunti atteggiamenti, azioni o parole le cause dell’aggressione. Tipicamente, questo accade nei casi di violenza sessuale: le parole e le espressioni utilizzate possono andare dal classico: “Se l’è andate a cercare” al più grave: “Sei tu che l’hai provocato”.

Silenzio, minacce velate, minacce espresse e scenate

Un silenzio può essere terribile, soprattutto se desideriamo chiarire qualcosa di urgente con una persona a cui teniamo. Evitare il confronto, negarsi per giorni, non rispondere è dunque una efficace strategia per stressare qualcuno.

Altre forme classiche di abuso che possono creare nel tempo danni assai gravi sono le scenate violente (con urla, grida, insulti e accuse), oltre alle minacce velate, che creano nella vittima uno stato continuo di paura e angoscia.

La forma classica di minaccia velata è quella di un consiglio: “Lascia perdere, è per il tuo bene”, “Sollevare il problema è molto peggio, credimi”, “Tanto è inutile, non cambia”, “Cambia atteggiamento se vuoi restare in questo posto”, “Se vai avanti così, tu salti”, “Continua così, e vedrai in che guaio ti cacci”.

La caratteristica di questi consigli tossici è la loro genericità: alla vittima viene rimproverato qualcosa, ma non si sa esattamente cosa, in quanto comportamenti, atteggiamenti e via di seguito sono alla fine concetti assai vaghi. In sostanza, subisce una diminuzione del suo empowerment, non un aumento.

Un vero consiglio contiene anche una soluzione praticabile, ossia la persona consigliata subisce un aumento, e non una diminuzione del suo empowerment: “Non chiamarlo per qualche giorno, e vedi se ti chiama lui” (so esattamente cosa devo fare).

Le motivazioni dell’abuso psicologico

Molti di questi comportamenti sono abbastanza comuni e accadono ogni giorno. In molti casi, sono addirittura inconsapevoli o istintivi, non nascondono una vera e propria perfidia. Il litigio e lo scontro, nella vita, sono del resto inevitabili. Il problema sorge quando diventano continui e ripetuti.

Quali sono le motivazioni dei carnefici? Si va, nel caso più grave, dal desiderio puro di distruggere la vittima fino a semplicemente mantenere il controllo e il potere nella relazione, tenendo la vittima costantemente sotto scacco.

In sostanza, è un po’ come finire sotto il classico bullo o malavitoso che ci prende a schiaffi e ci minaccia per costringerci a sottostare alle sue richieste e a riconoscere il suo ruolo di potere. La vittima finirà gradualmente per diventare ansiosa, depressa, insicura. I rapporti con gli altri peggioreranno, la vittima tenderà a isolarsi o sviluppare forme di evitamento nella comunicazione.

In conclusione, la vittima viene sempre più chiusa nelle mani del carnefice: si afferma così il controllo del partner dominante su quello che è stato sottomesso.

La comunicazione nell’abuso psicologico è un grande esempio del potere delle parole e delle narrazioni sulle persone e della loro capacità di fungere da veri e propri inneschi emotivi. In questi casi, però, lo scopo è purtroppo maligno e distruttivo.

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Immagine di rawpixel.com su Freepik

Autore: Marco La Rosa

Sono un web content writer, web designer e esperto di SEO e UX design. Ho scritto il libro Neurocopywriting, edito da Hoepli, dedicato all'applicazione delle neuroscienze alla comunicazione.

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